Nel Ventennio fascista il regime abolì i sindacati creandone di nuovi e trasformando l’idea di rappresentanza in un mezzo per controllare la società. Le donne attive nei sindacati fascisti e nelle organizzazioni femminili fasciste si impegnarono per organizzare le donne e farle aderire al modello di italiana voluto dal regime: una brava moglie e madre. Sul fronte dell’antifascismo, le donne che si opposero alla dittatura pur non potendosi organizzare in sindacati, diedero vita a scioperi e proteste e si impegnarono nel fuoriuscitismo, nell’opposizione interna clandestina e poi nella Resistenza.
Fascism created Fascist trade unions transforming the idea of representation into a mens to control society. Women active in Fascist trade unions and in female organizations worked to organize women and to make them adhere to the fascist ideal type: a good wife and mother. Even if under the dictatorship there were no free and antifascist trade unions, antifascist women got organized and got involved in different ways: they organized strikes, protests and took part in antifascist organizations abroad, in the undercover opposition in Italy and in the Resistance movement.
Affrontare il tema del sindacato, o più in generale del sindacalismo, e del ruolo ricoperto dalle donne al suo interno nel corso del Ventennio fascista significa necessariamente passare attraverso alcune indispensabili precisazioni. Innanzitutto cercare di rispondere, anche se brevemente, a questi quesiti: quali furono i rapporti tra sindacalismo fascista e mondo femminile? In termini di partecipazione e rappresentanza vi furono delle differenze? E anche quale fu il ruolo delle donne nell’opposizione sindacale antifascista? Come questa opposizione contribuì alla rinascita sindacale a partire dal biennio 1943-45?
Rispondere a tali domande può aiutarci a definire contesti e ruoli e ad inquadrare le donne che lottarono, anche su fronti avversi e pur con tutte le debite differenze, per una maggiore rappresentanza, per un più alto numero di ingressi nel mondo del lavoro e quindi per un riconoscimento della loro presenza.
L’impegno di queste donne si colloca nel ventennio di dittatura fascista, per tale motivo i profili ricostruiti in questa ricerca sono anche quelli di donne che credettero nel regime e per esso si spesero ricoprendo talvolta incarichi di prestigio, nella diffusa convinzione che le promesse fatte da Mussolini alle origini del movimento fascista a favore del riconoscimento della donna a pieno titolo nella società italiana potessero realizzarsi. Per servire il regime molte di queste donne sacrificarono la loro vita privata in nome dell’impegno per il duce e per il fascismo e giunsero a negare quello il fascismo realmente rappresentò per il mondo femminile, una dittatura che relegò la donna in una posizione ancillare e che non ebbe scrupoli ad usare violenza anche contro le donne che scelsero la strada dell’opposizione.
In questo lavoro vi sono anche le donne dell’antifascismo degli anni Venti e Trenta (confinate, fuoriuscite…) e quelle della Resistenza del biennio 1943-45, i cui profili biografici, non sempre di facile ricostruzione per le loro alterne vicende di vita, ci offrono uno spaccato dell’altra parte della medaglia, di chi comprese che la via verso l’emancipazione doveva necessariamente passare attraverso la partecipazione ad attività di protesta, fino alla lotta armata, contro tutte le forme dittatoriali.
L’Emilia-Romagna si offre pienamente come terreno di studio per questi argomenti per il suo carattere di laboratorio politico rilevante sia per il fascismo che per l’antifascismo, per i legami con il periodo liberale e con quello repubblicano e per l’elevato numero di donne attive in entrambi gli schieramenti qui considerati.
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1. Fascismo, donne e mondo del lavoro
Il ruolo di “madre e sposa esemplare” nella quale il regime fascista voleva confinare le donne, si scontrò sin dagli esordi del fascismo con il protagonismo che le donne reclamarono da testate giornalistiche, da associazioni fasciste e persino dall’interno del mondo corporativo. La fiducia riposta da alcune di queste donne nel regime e nelle sue parole modernizzatrici fu sfruttata dal fascismo che, come tutti i totalitarismi, seppe costruire messaggi fondati sull’ambiguità, sulla manipolazione di esigenze specifiche e distorte al fine di creare cittadini inquadrati e sottomessi al potere.
Alcune donne caddero in questa rete, altre, come diremo, si opposero ai lunghi tentacoli di una dittatura che anche nelle sue strutture sindacali dimostrò le sue reali finalità. Basti pensare a come la nomina dall’alto dei dirigenti, per la maggior parte politici arrivisti, laureati nelle discipline giuridiche che sapessero muoversi tra le pieghe di una complessa normativa, impedì quasi automaticamente l’accesso alle donne ai gradi più alti del sindacato, dato lo scarso numero di laureate e l’impegno delle poche esperte e colte nella battaglia contro la discriminazione professionale, come più volte ci ha illustrato nei suoi lavori Victoria De Grazia.
Le leggi fascistissime segnarono lo scioglimento di tutti i partiti e i sindacati al di fuori del regime. Con il patto di Palazzo Chigi e quello di Palazzo Vidoni, rispettivamente del 1923 e del 1925, iniziò la collaborazione con Confindustria che fruttò alla rappresentanza sindacale fascista l’esclusiva capacità di stipula dei contratti di lavoro. Durante la seconda metà degli anni Trenta i lavoratori erano poco più di 18 milioni (più di 5 milioni di donne e 13 milioni di uomini), oltre il 30% delle donne era iscritto alle strutture sindacali o parasindacali fasciste.
La richiesta di inserire nei sindacati una rappresentanza femminile rimase in larga parte disattesa anche perché le organizzazioni di regime puntarono sulla rappresentanza, e quindi sul controllo, dei lavoratori dei comparti ritenuti strategici per il fascismo, favorendo così settori industriali e impiegatizi aperti solo agli uomini. Ad eccezione di Vittoria Maria Luzzi, nominata nel Consiglio superiore delle Corporazioni in quando direttrice della Corporazione delle ostetriche, corporazione di sole donne, e Adele Pertici Pontecorvo, rarissima esperta di lavoro e prima donna notaro in Italia dimessasi dal Ministero degli Esteri per lasciare posto ad un reduce, che fu nominata nel 1933 consigliere del Ministero delle Corporazioni, il mondo del lavoro maschile e femminile rimase saldamente e continuativamente in mano agli uomini.
Alle donne il regime assegnò un compito centrale per i fini del fascismo: a loro spettava il ruolo di propagandare e attuare l’espansione demografica, rientrando però entro i rigidi e arcaici schemi familiari dai quali erano in parte uscite con la prima guerra mondiale. Le finalità di accrescimento demografico non corrisposero certo ad un aumento dei servizi sociali, ma si sposarono con le ricette economiche del regime che, soprattutto a partire dagli anni Trenta, dovette fare i conti con la crisi economica, affrontata anche attraverso un ritorno alle campagne. A ciò vanno aggiunti gli investimenti predominanti nell’industria pesante a discapito di quei settori come l’abbigliamento o l’alimentare, dove più alta era la presenza femminile. Il fascismo quindi incentivò quella netta separazione già presente tra il lavoro maschile legato alla produzione e il lavoro femminile di madre e moglie che trovava forza in una società di matrice cattolica e che non era stata affrontata adeguatamente nemmeno dal sindacalismo prefascista. Cacciata dal pubblico impiego, dai settori impiegatizi privati e dalla scuola, precarizzazione e aumento del divario tra i salari maschili e femminili furono solo alcuni tra i risultati più eclatanti raggiunti dalla politica fascista che, pur non riuscendo a spingere per un significativo calo dell’occupazione delle donne, emanò leggi sempre più restrittive sinonimo di un forte antifemminismo.
La legislazione del 1934 a tutela del lavoro femminile e di quello giovanile, la sostituzione del sussidio di disoccupazione con il sussidio di maternità e il conseguente aumento del costo del lavoro per mogli e madri, avrebbero dovuto, insieme ad altre norme, scoraggiare l’assunzione delle donne ritenute più utili alla procreazione. La scarsa qualifica attribuita al lavoro femminile e la compressione dei salari finirono infatti per aumentare la convenienza da parte del mondo imprenditoriale italiano ad assumere le donne. Questi provvedimenti, affiancati dallo squilibrio nei salari, contribuirono ad incrementare anche il lavoro a domicilio che, seppur normato dalla Carta del lavoro, rimase un’ampia sacca a lungo non direttamente controllata.
Solo sul finire del 1937 venne creta la Sezione operaie e lavoranti a domicilio dei Fasci femminili (la Sold) alla quale potevano iscriversi non solo le operaie e le lavoranti a domicilio, ossia le lavoratrici come avveniva nei sindacati maschili, ma anche le mogli e le donne imparentate con operai. Nata in seno al Partito nazionale fascista, la Sold, che non si occupò mai di rafforzare il potere contrattuale di categoria, aveva come finalità quella di «Promuovere la propaganda fascista ed educativa presso le operaie, assecondando il miglioramento delle loro capacità professionali e domestiche». In realtà quest’ultima attività fu quella maggiormente incentivata dal regime per costringere le donne entro le mura domestiche e garantire il lavoro al capofamiglia maschio. L’alto numero di iscritte che la Sold raggiunse negli anni delle guerre fasciste (oltre un milione e mezzo) fu essenzialmente dovuto alla necessità di avere la tessera del Pnf – e la Sold ne era parte – per accedere ai benefici dell’assistenza sociale.
Molto più numerose furono le tesserate alle Massaie rurali, l’organizzazione femminile più grande promossa dal fascismo in seno ai sindacati agricoli prima di passare anch’essa sotto i Fasci femminili nel 1934. L’interesse del regime per il variegato mondo femminile dei campi, che comprendeva la mondariso della Valle Padana, la reggitrice della mezzadria della Toscana fino alla moglie del latifondista meridionale, si sviluppò solo all’inizio degli anni Trenta quando venne creata la Federazione fascista delle massaie rurali (Fnfmr), all’interno della Confederazione nazionale dei sindacati fascisti dell’agricoltura (Cnsfa).
Per il fascismo le contadine erano una categoria da controllare per incentivare la produzione agricola sulla scia della battaglia del grano e soprattutto in concomitanza con la politica autarchica, per rinforzare le barriere di classe che distanziavano le campagne dalle città – anche se la propaganda ne proclamava il superamento –, e in modo particolare per difendere dalla modernità l’istituto familiare ed attuare in maniera efficace la campagna demografica e poi razziale. La massaia rurale non subiva né il fascino dell’urbanizzazione né quello dei modelli stranieri, era l’espressione di un’identità autenticamente nazionale la cui virtù risiedeva nel sapere eseguire lavori agricoli e domestici «in modo moderno e razionale». Questo era il modello che i membri dei Fasci locali propagandavano nelle campagne, come nel caso della nota Laura Marani Argnani, leader del Fascio femminile di Reggio Emilia e impegnata nel reclutare ed istruire le massaie rurali ai dettami del regime. Il suo consenso all’ideologia mussoliniana, tradotto in una lunga militanza, la portò, quasi ottantenne, ad aderire al fascismo di Salò dopo aver sacrificato tutta la vita per propagandare l’assoluta fede e ubbidienza nel duce.
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2. Non solo fasciste
L’emancipazionismo femminile, che sin dalla fine dell’Ottocento aveva avuto un suo punto di forza nell’evoluzione del mondo del lavoro, sembrava essere stato messo definitivamente in crisi dal regime e dal suo modello sociale e lavorativo. Anche le aspettative delle donne che credettero nella modernizzazione del regime vennero mano a mano deluse dalle sue mancate e/o antifemminili realizzazioni. Sfumarono la proposta della piacentina e fascista Maria Albertina Loschi di costruire un Ufficio femminile per «riportare in armonia capitale e lavoro» o le speranze di Ester Lombardo per un Segretariato nazionale per gli Interessi femminili che si occupasse esclusivamente dei problemi delle donne. La politica del regime mise peraltro in luce le ambiguità nel pensiero di queste intellettuali – divise tra la fede politica nel fascismo e le sue scelte miranti all’esclusione delle donne dal mercato del lavoro, tra la concezione di quest’ultimo come necessità e la sua definizione come diritto universale per entrambi i sessi, tra tutele di tipo paternalistico e conquiste paritarie – spingendone alcune a scegliere la strada del sindacalismo antifascista e dell’egualitarismo democratico.
Durante gli anni del regime vi furono forme diverse di opposizione a cui presero parte anche le donne, ci basti ricordare le 300 donne che nel 1932 si opposero con una petizione all’esclusione dai concorsi a cattedra per le scuole, o le lavoratrici del settore tessile e le mondine che a più riprese protestarono e scioperarono contro le riduzioni del livello salariale; le mondariso riuscirono ad ottenere la creazione della “prima mondina”, una sorta di “fiduciario di fabbrica” che fu però riconosciuta come rappresentante eletta direttamente dalle lavoratrici solo nel 1939.
Ovviamente le centinaia di donne che presero parte agli oltre 70 tra scioperi e serrate avvenuti in Emilia-Romagna durante il Ventennio, in modo particolare le già citate mondine o le note bottonaie piacentine protagoniste dello sciopero del 1930, non possono essere definite sindacaliste.
Le forme di protesta, pur non riuscendo sempre a raggiungere i risultati sperati, furono comunque espressione di un vasto malcontento popolare che l’impegno degli antifascisti, divisi tra la Confederazione generale del Lavoro, entrata in clandestinità all’estero dopo la messa fuorilegge dei suoi leader da parte del fascismo, e gli antifascisti rimasti in Italia, riuscì a mano a mano a canalizzare.
Dall’esilio francese i sindacalisti legati all’esperienza di Bruno Buozzi guidarono la lotta contro il regime impegnandosi nell’aiutare i compagni incarcerati in Italia, nell’organizzare i fuoriusciti e prepararli a difendere i loro diritti di lavoratori grazie all’ausilio di numerose donne che, cresciute in contesti familiari antifascisti, seguirono padri, fratelli e mariti in fuga dall’Italia. Molte di loro, ce lo ricorda la vicenda di Novella Pondrelli, la giovane mondina di Molinella fuoriuscita in Francia, poi arrestata dai fascisti e mandata al confino con il marito, approdarono prima al sindacalismo attraverso l’antifascismo e la militanza partitica e poi alla Resistenza.
Con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943, la firma dell’armistizio il successivo 8 settembre e la divisione dell’Italia in due con i tedeschi e i fascisti della Repubblica sociale da una parte, gli alleati, il governo Badoglio e il re dall’altra, la situazione del paese mutò ulteriormente e anche le lotte sindacali dovettero adeguarsi a nuovi interlocutori al Sud, e poi al Centro, e a nuovi nemici al Centro-Nord. In questo contesto le donne si unirono attivamente in organizzazioni quali i Gruppi di Difesa della donna, impegnati non solo sul fronte del contrasto a fascisti e nazisti, ma su temi che sarebbero poi stati importanti per il dibattito post-Liberazione. Al comune bisogno di «pane, pace e libertà», come recitava il Programma d’azione dei Gruppi, alle attività contro la guerra, quali i sabotaggi, a quelle di assistenza alle famiglie dei deportati, di sostegno alla Resistenza e alla diretta partecipazione alla lotta armata, le donne dei GDD unirono le richieste centrali dell’emancipazionismo femminile, prima fra tutte l’estensione del diritto di voto.
I Gruppi di difesa, grazie alla loro azione capillare di propaganda svolta anche attraverso il giornale «Noi donne», riuscirono a creare una rete di contatti entro i quali si muovevano città e campagna, donne con storie personali diverse, di diverso orientamento politico e di generazioni distinte, contribuendo alla riuscita del coinvolgimento femminile nelle manifestazioni e negli scioperi e nella progressiva presa di coscienza della lotta politica. Tra le tante donne emiliano-romagnole che diedero vita ai Gruppi di difesa, ci piace citare in questa sede una forlivese, Ida Valbonesi, che divenne responsabile dei GDD di Forlì. Nata in una famiglia antifascista e cresciuta politicamente in ambienti di lavoro operai, la sua attività nei Gruppi, come ella stessa ha ricordato, coinvolse di giorno in giorno sempre più donne, sensibili ai problemi comuni che venivano discussi insieme: ingiustizia sociale, guerra, necessità della pace a aiuto ai partigiani.
Se questo era l’impegno femminile nelle zone sotto il controllo nazista e fascista, nell’Italia già liberata la situazione era molto diversa. Le donne, così importanti nell’organizzazione degli scioperi e nelle manifestazioni del Centro e del Nord, faticarono ad ottenere una rappresentanza all’interno del rinato movimento sindacale unitario dopo il patto di Roma del giugno 1944. Le donne trovarono un canale di espressione delle istanze del mondo del lavoro femminile nell’Unione donne italiane, costituitasi a Roma il 15 settembre 1944, che aveva al suo interno una commissione sindacale e utilizzò la rivista «Noi donne», in contiguità con i Gruppi di difesa, per portare avanti le rivendicazioni delle lavoratrici.
Tra i militanti e i dirigenti antifascisti che diedero vita alle strutture democratiche del paese liberato dividendo la loro attività tra associazioni, partiti, sindacati e giornali furono presenti solo alcune donne. Tra loro ricordiamo Egle Gualdi, un’operaia nata a Modena all’inizio del Novecento e attiva a Reggio Emilia in una cellula comunista del settore tessile, condannata prima al confino e poi costretta all’esilio in Francia. Al suo ritorno Gualdi partecipò alla Resistenza a Roma e si impegnò nell’Udi, fu poi incaricata di seguire il lavoro sindacale anche in qualità di delegata al primo congresso della Cgil che si tenne a Napoli all’inizio del 1945. Egle Gualdi, come molte altre, lasciò il sindacato per il partito nel 1946, forse amareggiata per aver ottenuto un’unica rappresentante donna nella neocostituita Commissione consultiva femminile, ma certa di aver ottenuto con le sue compagne un grande risultato: aver fatto approvare da tutta l’assemblea un ordine del giorno a favore del diritto di voto alle donne.
Simona Salustri ha ricostruito le biografie di:
Argnani Marani Laura (1865-1955)
Barbolini Norma (1922-1993) – scheda elaborata con Eloisa Betti
Buttafuoco Pina
Casari Adelia (Emma – Nigrén) (1919-2013) – scheda elaborata con Eloisa Betti
Dal Monte Vittorina (1922-1999) – scheda elaborata con Eloisa Betti
Fortunati Roda Linda (1984-?) – scheda elaborata con Elena Musiani
Guadagnini Vittoria (1903-1997)
Losi Delfina (1893-1972) – scheda elaborata con Elena Musiani
Malavasi Anita (1921-2011) – scheda elaborata con Eloisa Betti
Marino Quintina (Tina) (1895-?)
Modoni Margherita (Maria) (1888-?)
Monardi Marcella
Montaletti Anita (1891-1970) - scheda elaborata con Elena Musiani
Pacetti Giuseppina
Pondrelli Novella (1911-2009) – scheda elaborata con Eloisa Betti
Sabbi Diana (1922-2005) - scheda elaborata con Eloisa Betti
Zerbo Beccari Nevina (1903-1995)
Zocca Gabriella (1926-) – scheda elaborata con Eloisa Betti
Zoli Montanari Lina