Pubblichiamo uno stralcio dello scritto della storica Elena Musiani intitolato “20 maggio 1970 – Lo Statuto dei Lavoratori compie cinquant’anni” per la rivista Il Mulino.
“Era il 20 maggio 1970 quando veniva emanata la legge n. 300/1970, meglio nota come “Statuto dei lavoratori”. Erede in parte della progettualità riformistica dei primi governi di centro-sinistra, la normativa andava ad attuare i principi fondamentali stabiliti dalla Costituzione.
Lo “Statuto” – che conteneva sei titoli relativi alla libertà e alla dignità dei lavoratori, alla libertà sindacale ed al collocamento – si inseriva in un contesto storico complesso, eco da un lato della “grande trasformazione” seguita al miracolo economico e, dall’altro, degli strascichi delle rivolte della fine degli anni Sessanta: la contestazione studentesca e l’autunno caldo.
Un Paese, quell’Italia, che si presentava carico di contraddizioni ereditate da una trasformazione “mancata” o comunque “mal governata” – per citare gli scritti di Guido Crainz – e la cui complessità avrebbe avuto riflessi sul futuro sviluppo economico e sociale.
La ristrutturazione nelle fabbriche, seguita alla crisi del 1964-65, aveva aumentato la meccanizzazione e i ritmi di lavoro, con la conseguente crescita delle prestazioni a cottimo, causa di ulteriori differenziazioni tra i lavoratori. Il peso sociale della classe operaia alla fine degli anni Sessanta aveva raggiunto livelli molto alti, con concentrazioni nei maggiori stabilimenti talvolta notevoli, fenomeno che non avrebbe tardato ad avere ripercussioni anche politiche. Le prime battaglie si accesero in aree periferiche per poi allargarsi, nella primavera del 1968, alle fabbriche del Centro Nord. L’eco della rivolta parigina, che dalle università si era andata estendo al mondo del lavoro, sembrava così attraversare le Alpi e alimentare una protesta italiana che si fondava su richieste di un generale miglioramento della condizione lavorativa (abolizione del cottimo e riduzione dei ritmi di produzione); sull’eliminazione delle “gabbie salariali” – che finivano per separare il Nord e il Sud del Paese – ma anche sulla riduzione delle differenze salariali esistenti tra operai e impiegati. I “padroni delle fabbriche sono fermi al Medioevo”, denunciava “Il Giorno” nell’ottobre del 1969. Si trattava di una rivolta sindacale che apriva dunque anche all’espressione di nuove forme di cittadinanza.”
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